Il 75° anniversario della Liberazione lontano dalle piazze davvero dà l’idea della condizione in cui viviamo ormai da settimane. La privazione, l’impossibilità di poter frequentare spazi aperti ci portano ancora una volta a riflettere su ciò che dovrà essere e su quel giorno lontano, che proprio nelle piazze festeggiò la riconquistata libertà per noi tutti, inaugurando una lunga tradizione.

Abbiamo scelto di mandare un pensiero alle donne e agli uomini della Resistenza sull’onda di due suggestioni.

Una musicale, a cura di Paolo Buconi, violinista klezmer, che ci ha inviato due proposte:

la prima è la struggente e solitaria versione del canto che tante volte ci ha accompagnati, una Bella ciao dal chiuso di una stanza che però ci raggiunge ancora;

la seconda, indirizzata alla Fondazione Villa Emma, è la bellissima A Glesele L’chaim, interpretata nel segno della festa e della gioia, un brindisi alla vita, che non di rado la musica ebraica sa comunicarci con energia.

 

L’altra poetica, divisa in tre momenti:

Per Ottavio Ricci, scritta nel dicembre 1944 da Attilio Bertolucci e dedicata a un suo studente, morto da partigiano il mese prima sui monti del Parmense. Il testo, nato in piena guerra, già segnala i possibili agguati dell’oblio.

A te l’Appennino autunnale:
le foglie di ruggine, il vento,
le case chiuse nel sonno,
gli occhi chiusi per sempre.

La giovinezza muore, sui monti
le siepi sono nude e stracciate.
Ora il tuo passo s’è perduto, addio
e addio ancora, viene

un inverno favoloso
di nevi e fiamme, un tempo quieto
che ci scorderemo di te.

 

Anche Lamento V risale al 1944; ne è autore Giorgio Caproni, salito in Alta Val Trebbia durante la Resistenza, che ne ricorda così la genesi: “l’occasione… mi fu offerta da una veglia presso le salme di alcuni Partigiani, mentre mi trovavo in una sconquassata casa di montagna accanto a quei morti sul nudo ammattonato e ad alcune donne che, con ostinazione maggiore dello sgomento, continuavano mute a cucire le bandierine dei distaccamenti”.

Quali lacrime calde nelle stanze?
Sui pavimenti di pietra una piaga
solenne è la memoria. E quale vaga
tromba – quale dolcezza erra di tante
stragi segrete, e nel petto propaga
l’armonioso sfacelo?… No, speranze
più certe son troncate sulle stanche
bocche dei morti. E non cada, non cada
con la polvere e gli aghi nelle bocche
dei morti una parola. La ferita
inferta, non risalderà la notte
sulle stanze squassate: è dura vita
che non vive nell’urlo in cui altra notte
geme – in cui vive intatta un’altra vita.

 

Una sera di settembre, scritta nel 1955 da Franco Fortini, ci riporta ai giorni dell’8 settembre ’43, cruciali per la scelta di una generazione e rivisitati nel fuoco del furore e del disorientamento di quei momenti, ma anche percepiti come opportunità nuova, quasi magica, per immaginarsi nel futuro.

Una sera di settembre
quando le dure donne rauche di capelli strinati
si addolcivano pronte nei borghi calcinati
e ai fonti la sabbia lavava le gavette tintinnanti
ho visto sotto la luna di rame
sulla strada viola di Lodi due operai, tre ragazze ballare
tra le bave d’inchiostro dei fosfori sull’asfalto
una sera di settembre
quando fu un urlo unico la paura e la gioia
quando ogni donna parlò ai militari
dispersi tra i filari delle vigne
e sulle città non c’era che il vino agro
dei canti e tutto era possibile
intorno al fuoco della radio pallido
e chi domani sarebbe morto sugli stradali
beveva alle ghise magre delle stazioni
o nella paglia abbracciato al fucile dormiva
quando l’estate inceneriva
da Ventimiglia a Salerno
e non c’era più nulla
ed eravamo liberi
di fuggire, di non sapere o piangere,
una sera di settembre.